Comfort zone

Per molti la pigrizia è una patologia da debellare, o una sorta di imperdonabile vizio per cui provare vergogna. Come se dovessero dimostrare, a loro stessi ancor prima che agli altri, che stanno utilizzando il tempo che è stato loro generosamente concesso nella maniera più proficua. Per scacciare ogni possibile senso di colpa insomma.

E quindi eccoli ad infittire la propria agenda quotidiana con una programmazione serrata, ficcando impegni ad ogni interstizio della giornata come se stessero rattoppando un tubo che perde. Anche quando il contesto suggerirebbe che la cosa più saggia da fare sia incrociare le braccia, chiudere gli occhi e trovare un po’ di pace.

E invece no, perché il rischio di perdersi qualcosa è sempre lì a braccarli, tormenta il loro sonno come minuscole gocce d’acqua che, una dopo l’altra, si infrangono nel lavandino con un inaspettato boato che rimbomba nella loro testa. Splash, splash, splash.

Col tempo ho sviluppato e affinato un efficace sistema di autodifesa per riconoscere istantamente questi soggetti ossessivo-compulsivi, e naturalmente tenermene alla larga.

Dopo aver colto alcuni, quasi impercettibili, segnali del disturbo da iperattività nel viso e nelle mani, per avere una conferma definitiva dello stato di avanzamento della malattia chiedo loro come passano il tempo quando sono in spiaggia. Se rispondono che cercano il più possibile di rilassarsi ma che dopo un po’ hanno comunque bisogno di leggere un libro o ascoltare della musica, a volte addirittura farsi una passeggiata sul bagnasciuga, allora sono borderline. La loro salvezza, seppure in bilico, non è però ancora compromessa.

Ben diverso è il caso di quelli che ammettono di tediarsi terribilmente e di cercare ogni genere di attività per non sprofondare in un abisso di noia. Per questi, come del resto per quelli che tagliano corto affermando di non amare il mare e di preferire la montagna, non c’è speranza: sono in fase terminale e i segni dello squilibrio sono sempre pù evidenti nel loro sguardo perennemente elettrizzato ma in cui si scorge un remoto e inquietante riflesso di morte cerebrale.

Li osservo con un misto di fastidio e compassione e penso con amarezza ai faticosi corsi di windsurf, al noleggio di tandem cigolanti, alle partite di beach volley sulla sabbia arsa dal sole, alle costose e ingombrandi attrezzature da immersione. Dicono sempre di essersi “divertiti un sacco” e sono pronti a provarlo attraverso migliaia di foto che intasano gli hard disk dei telefoni che hanno appena dovuto ricomprare perché quelli precedenti avevano esaurito la memoria.

Mi chiedo quand’è che di preciso sia diventato così difficile tirare i remi in barca, disconnettere il cervello o almeno silenziarne le notifiche. Azioni come uscire di casa, interagire con altri esseri umani, visitare luoghi sconosciuti, che pure hanno una loro incontestabile importanza, dovrebbero essere centellinate, sapientemente alternate con momenti di silenzio, solitudine e Netflix.

Io la mia comfort zone l’ho costruita e arredata in anni di meticolosa pratica. Ci ho eretto intorno una trincea e poi una vera e propria cinta muraria che ha resistito anche a colpi potenzialmente letali come il trasferimento in Cina, il matrimonio e il Covid.

Certo, ad ogni breccia inferta ho dovuto ridurre e riorganizzare lo spazio di manovra, ma sono sempre qui e a chi mi consiglia di provare a uscire più spesso da questa fascia di sicurezza rivolgo un’occhiata di distaccato disprezzo alla Lebowsky.

Ma la minaccia più dura di sempre è alle porte, apparentemente innocua nella sua navicella spaziale che continua ad espandersi man mano che passano le settimane, con una specie di sorriso che si apre come una sottile falce di luna nella notte.

Prepararsi all’impatto. 

Più passano gli anni e più uno diventa pigro… purtroppo c’è sempre qualcuno, qualche amico, che ti fa: “Eh no, quello lì non lo puoi perdere” (Giorgio Gaber)

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