Ho provato più volte nel corso degli anni a dare un significato al mio attaccamento morboso al Festival di Sanremo.
Se in passato mi riusciva difficile, da quando sono in Cina il fenomeno è ancora più oscuro e, onestamente, anche un po’ inquietante.
A migliaia di chilometri di distanza e sette ore di fuso orario, in questo “sottosopra” dove più o meno costantemente mi sembra che tutto ciò che pensi, dica o faccia sia percepito come a dir poco stravagante, per non dire estraneo ad ogni norma di buon senso, io puntualmente a inizio febbraio sento il dovere morale, e a tratti il bisogno fisico come un tossico in crisi di astinenza da TV generalista, di seguire il Festival.
Per un’intera settimana vengo totalmente assorbito da una estenuante routine fatta di letture approfondite di articoli d’opinione, scorrimenti di bacheche social a caccia di indiscrezioni dell’ultimo minuto ed interminabili buffering di Youtube per rivivere, rigorosamente in differita, i momenti più eclatanti della fatidica kermesse.
C’è qualcosa di patologico in tutto questo, lo riconosco.
Deve avere a che fare con una certa idea di famiglia italiana che, tra gli anni ’80 e i primi 2000, decideva di riunirsi davanti ad un televisore, spesso l’unico della casa, in alcune precise occasioni, sempre e solo le stesse, come in un tacito accordo tra le parti. Nessuno completamente soddisfatto dello spettacolo che gli veniva propinato, ma tutti consapevoli che la solennità del momento non prevedeva altro posto per loro se non quel divano. Attratti magneticamente da quell’apparecchio che, ad un certo punto, da inanimato oggetto su cui si concentrava l’attenzione si trasformava in implacabile giudice della solidità di quel gruppo familiare, del suo grado di aderenza agli standard comuni.
Bisognava farsi trovare lì insomma, uno di fianco all’altro, anche se stretti e scomodi, per dimostrare di esserci. Per partecipare a quel rito collettivo, tra i pochi rimasti insieme all’inno nazionale prima delle partite, in cui, in silenzio ognuno nella propria casa, davamo una spolveratina al nostro senso di appartenenza. E la cosa veniva accolta, se non con uno smodato entusiasmo, almeno con il sollievo di chi pensa “Poteva andarmi peggio”.
Sì, c’è decisamente qualcosa di patologico in tutto questo.
Ma in fondo sto solo cercando di riavvolgere il nastro di quelle VHS su cui papà ha registrato una ventina di edizioni del Festival. Quelle che riguardavo in modo ossessivo quando saltavo la scuola perché non stavo bene e avevo bisogno di piccole e rassicuranti certezze sul mio futuro. Quelle che oggi, sempre che si vedano ancora, non saprei più davvero dove infilare. Replay.
Cadono le stelle e sono cieco e dove cadono non so, cercherò, proverò, davvero ad avere sempre su di me il profumo delle mani, riuscire a fare sogni tridimensionali, non chiedere mai niente al mondo, solo te.
Samuele Bersani