Accendo la radio nei momenti chiave della mia giornata: di mattina mentre mi annodo la cravatta, nel tardo pomeriggio sotto la doccia e dopo cena lavandomi i denti. Ho ricominciato a farlo nell’anno trascorso a Roma e non so neanche perché, dal momento che ho sempre snobbato la radio.
Prima la musica la sceglievo con cura e non accettavo suggerimenti da nessuno sulla playlist da seguire, né mi interessava conoscere nel dettaglio le piccole crisi che vivono quotidianamente migliaia di ascoltatori. Non le sentivo mie o ero ancora troppo giovane per quella roba.
Poi sono partito per la Cina e la distanza tra me e la realtà italiana si è trasformata in una voragine. Le storiche dimissioni di Silvio in quel novembre di più di dieci anni fa mi sono state riportate dai miei compagni di classe polacchi, che tra l’altro sembravano anche più entusiasti del sottoscritto per la notizia.
Per anni ho guardato le vicende politiche e sociali del nostro caro paesello con distacco e sufficienza, quasi scherno. Ero proiettato verso il futuro e quello mi sembrava solo uno stanco ripetersi di parole e gesti codificati. Il contrasto tra immobilismo e travolgente cambiamento ai miei occhi era troppo stridente, ed è stato su questo paragone impietoso, quanto evidentemente artificioso, che per molto tempo ho costruito la logica inattaccabile secondo la quale trasferirmi in Cina era stata l’idea più brillante che avessi mai avuto.
Oggi non so se è proprio così, ma, se ci penso, sono talmente tante le cose di cui non sono certo che non mi pare un problema grave. E non c’è speranza che diminuiscano con l’età, al contrario. Quindi va tutto benissimo e non rinnego niente eccetera eccetera.
Però ho bisogno di accendere la dannata radio nei momenti chiave della mia giornata. Ho bisogno di sentire la mia dannata lingua e qualcuno che si lamenta perché durante il ponte di Pasquetta c’era il solito traffico in tangenziale e le bottiglie d’acqua che costano uno sproposito solo perché sono firmate dalla Ferragni sono uno schiaffo alla miseria e la Juve ha rubato un’altra partita. Cose così insomma. La normalità più becera e allo stesso tempo rassicurante a cui non ero più abituato e che mi è ripiombata tra capo e collo nel momento stesso in cui ho rimesso piede a Roma l’anno scorso.
Per quanto provi a scrollarmela di dosso, a migliaia di chilometri di distanza e sei ore in anticipo, le sue scorie sono dappertutto.
È perché dovrei privarmene peraltro? In fondo è solo un’altra fase della mia vita. Picasso ha avuto un periodo blu e uno rosa. Io, dopo il mio periodo iPod, sono al mio periodo radio.
Amo la radio perché arriva dalla gente, entra delle case e ci parla direttamente
Eugenio Finardi