Ciao Lucio,
quando è stata l’ultima volta che ci siamo visti? Deve essere stato qualche giorno dopo il matrimonio di Eddy, due anni fa o giù di lì. Eravamo a Kunming, bevevamo birra all’Irish Pub e parlavamo di Juventus.
Mi stavi raccontando com’era stato incontrare i giocatori e fare loro da interprete prima della finale di Supercoppa Italia contro il Napoli a Pechino. Avevi detto una cosa divertentissima su Pepe che c’è mancato poco che mi strozzassi. Uno dei tuoi soliti commenti al vetriolo, tipo che era un burinaccio di borgata o una roba del genere.
Qualche settimana dopo avresti detto addio alla Cina, e chissà se eri così sollevato al solo pensiero come volevi farmi credere. Oppure era proprio così, semplicemente ti eri rotto il cazzo di questo posto fetente e chiassoso a cui avevi provato a lasciare qualcosa e che non ti aveva ripagato come era giusto che fosse.
Ma non dirmi che non ti manca l’adrenalina del palco, il sudore che si posa sul viso come un velo, la puzza di alcol di infima qualità e la selva di braccia puntate in alto che si muovono in maniera scomposta nel buio della sala.
Se c’era un luogo al mondo dove tutto ciò sarebbe stato possibile, non era che la Cina. È cambiata parecchio sai? Continua a farlo giorno dopo giorno e in modi che non saprei spiegare. Si spinge verso direzioni imprevedibili e misteriose, con la stessa tenacia e rapidità dell’acqua che si fa largo tra mille ostacoli, tenendoci tutti col fiato sospeso in attesa di vedere cosa succede nella prossima scena.
Sì, la Cina è un noir in bianco e nero in cui è difficile rimettere insieme i pezzi della storia e tutti i personaggi hanno qualcosa da nascondere. Ma soprattutto, la Cina è tremendamente punk, e tu hai avuto la genialità di capirlo prima di molti altri.
Tu ed Eddy, naturalmente. Ma come si fa a separare due chiappe dello stesso culo? Conosco un po’ di gente, un bel po’ di gente, che non sa cosa darebbe per rivedervi fianco a fianco sullo stesso palco, vestiti come due deficienti mentre urlate al punto da rischiare di bruciarvi le corde vocali.
Tu con i pantaloni di pelle neri, talmente aderenti da bloccare la circolazione, e lui con una penosa giacca dorata e del volgare trucco da bagascia in faccia. Questa immagine raccapricciante mi si è presentata agli occhi più volte qualche mese fa, provocandomi perlopiù forti conati di vomito.
Ero a Hong Kong e, chissà come, il tuo libro aveva trovato il modo di infilarsi nel mio zaino. Forse non aveva ancora finito con me e a lungo aveva aspettato l’occasione giusta per rimettersi in pari. Per raccontarmi proprio tutto, anche quello che si nascondeva nel bianco tra le lettere.
Ho trovato in quegli spigoli più quanto potessi immaginare. Ma di questo parleremo la prossima volta che passerai da queste parti. Anche senza pantaloni di pelle neri andrebbe bene lo stesso.
“Sai che potremmo fare?”, dissi rivolto a Eddy, mio coinquilino, amico e compagno dei corsi di cinese, “quando andiamo in Cina, potremmo metterci a cantare le canzoni dei CCCP e diventare famosi. Tanto là nessuno li ha mai sentiti. Diciamo che le canzoni sono le nostre e facciamo una barcata di soldi”
(“Punk Road in Cina”, Lucio Cascavilla)