La chiamata

Chongqing. Sono passati due anni dalla prima volta che ci sono stato. Un’eternità da queste parti. Inutile dire che sono cambiato molto da quei tempi lì. O meglio, è cambiato il mio modo di vedere e vivere questo paese, le mie convinzioni, le mie prospettive. Ma che ci facevo a Chongqing? Ah sì, ero in viaggio con la mia ragazza cinese di allora. Aveva studiato italiano proprio lì e si apprestava a laurearsi.

L’Italia si giocava l’ingresso alle semifinali degli Europei di Polonia e Ucraina ai rigori contro gli odiatissimi inglesi. All’ultimo tiro dal dischetto, quello che decretò la vittoria degli azzurri, scattai in piedi e strozzai in gola un urlo nella torrida notte di inizio giugno.

Ero solo nel soggiorno di un appartamento che era stato tramutato in improbabile ostello e dovevo stare attento a non svegliare gli altri ospiti. Quello di fatto rappresenta l’unico momento dell’intero weekend che ricordi con piacere. Il resto fu una tortura immane. Forse è proprio da lì che il rapporto tra me e la ragazza cominciò ad incrinarsi.

Passai la metà del tempo a farle pesare di avermi trascinato in quell’inferno e l’altra metà a giurare a me stesso che non ci sarei mai più tornato, se non contro la mia volontà. Sul bus del ritorno, mentre contemplavo le mie scarpe inzuppate per l’incessante pioggia che si era abbattuta su di noi, realizzai per la prima volta come Kunming per molti aspetti fosse un’oasi felice. Ma dove andrò quando mi stancherò di Kunming? Decisi che ci avrei ripensato quando sarebbe successo.

Quel giorno arrivò più di un anno dopo, molto prima di quanto mi aspettassi, ed ero talmente ansioso di andarmene che avrei accettato un bel po’ di compromessi. Chongqing non rientrava tra questi, naturalmente. I ricordi di quei tre giorni di inizio giugno erano ancora troppo vividi e ogni tanto di notte tornavano a tormentarmi sotto forma di atroci incubi.

Ecco perchè quando il signore dall’accento familiare ci parlò del concorso per entrare nel nuovo Consolato Italiano di Chongqing, mi feci una gran risata e continuai a bere Margaritas come se nulla fosse. Risi di nuovo, e questa volta con più gusto, quando, 4 settimane più tardi, mi trovai di fronte un articolo in italiano da tradurre in cinese in un’ora e senza l’uso del vocabolario. Alzai gli occhi e osservai il cielo di Chongqing oltre la finestra, cupo e gonfio di pioggia.

Ma come mi era venuto in mente? Cosa stavo cercando di dimostrare? Erano stati bravi a convincermi che qualche possibilità ce l’avevo anch’io. Amici. Pensano di conoscerti, ti assicurano che sei migliore di quanto ritieni e a volte finisci per credergli. Quell’ora passò in fretta.

Ricordo la mia mano che procedeva decisa e riempiva il foglio bianco di segni strambi. È tutto diverso quando si sa di non avere niente da perdere. Dai Giuseppe fà questa cosa e falla in fretta che tanto tra due giorni sarai a Chengdu a vendere vino italiano ai cinesi, mi dicevo mentre le lancette facevano a gara con la mia mano a chi corresse più veloce. L’ultima immagine che conservo di quei giorni è l’umida cameretta di ostello da 100 yuan a notte. Il letto sfatto, la camicia bianca della laurea appesa alla parete e la valigia da sistemare.

Tanta tenerezza per quel ragazzo che non ha mai smesso di crederci, anche quando le cose si mettevano male.

La cameretta con il letto sfatto mi è tornata in mente quando ho ricevuto la chiamata, insieme ad un miliardo e più di altre immagini che erano finite chissà dove. Tipo l’abbraccio di mio padre il giorno della laurea, il rumore del vento che si insinua tra gli ulivi nelle silenziose notti estive in Calabria, il grembiule blu di quando facevo le elementari, il fumo che si leva dalla pizza appena sfornata. Il sorriso di mia madre e quanto sarebbe felice adesso.

“Ma… ne siete sicuri?”

Arrivederci tristezza oggi mi godo la mia tenerezza. Perché non durerà
(Dario Brunori)

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