Il mio posto in campo

Ho sempre voluto fare l’attaccante. Sin dai tempi dell’oratorio, o forse anche prima, quando Inzaghi era il mio idolo e mi bastava avere il numero 9 cucito sulla schiena per sentirmi migliore di molti altri.

È stato su uno di quei campetti improvvisati, tra vortici di polvere e ginocchia sbucciate, che per la prima volta ho compreso quanto per me fosse vitale vincere e, soprattutto, segnare.

Più volte, ormai cresciuto, mi sono chiesto perché avessi scelto di ispirarmi proprio a quel giocatore. Certo, il mio essere juventino sfegatato aveva contribuito, ma c’era dell’altro. Era come se vedessi in lui la prova vivente che era possibile sfidare le leggi della natura e sconfiggerle, e questo mi confortava parecchio.

Come Inzaghi, ero magrolino e bassino, non possedevo una tecnica eccellente e il mio destro era tutt’altro che micidiale.

Però sapevo prima degli altri dove trovarmi per far gol.

E poi, che altro ruolo avrei potuto ricoprire in campo? Non certo il portiere (i miei riflessi non erano così buoni), o il difensore centrale (per via della stazza), e nemmeno il terzino (non ero abbastanza veloce).

Per un po’ ponderai di fare il centrocampista, ma lo trovai subito terribilmente noioso.

Apparentemente, l’unica cosa che mi riusciva bene, ed anche quella che mi dava più piacere, era nascondermi tra i difensori avversari e aspettare il momento giusto per spingere la palla in fondo al sacco.

E, quando ciò accadeva, era l’apoteosi, il nirvana, la liberazione.

Quando Superpippo lasciò la Juve per andare al Milan, avevo già cambiato sport, o meglio, avevo trasferito la mia competitività dal terreno di gioco alle aule di scuola. Ma, di fatto, il problema di quale ruolo interpretare era sempre lì ad assillarmi.

Sedermi in prima fila piuttosto che al centro o nelle retrovie, rispondere per primo ad una domanda della professoressa oppure aspettare che lo facesse qualcun altro per poi intervenire, copiare o far copiare nei compiti in classe.

Tutte decisioni che ho quasi sempre preso istintivamente, e che hanno determinato, più o meno chiaramente, quale fosse il mio posto in squadra.

Oggi il dilemma si ripropone, ma in palio c’è ben più che un gol o un buon voto sul registro.

Ripenso a quella volta in cui provai a fare il centrocampista. Come ho detto, non mi piacque affatto ed abbandonai subito l’idea. Lì in mezzo al campo non v’era gloria, mi mancava l’adrenalina che solo l’area di rigore può scatenare e il boato del pubblico quando ti trovi a tu per tu col portiere.

Però ricordo che giocai una partita quasi perfetta, azzeccando tutti i passaggi e recuperando palloni a destra e a manca. Alla fine, qualcuno si complimentò con me e mi chiese perché insistessi a voler stare in attacco, quando era evidente che rendessi più in mezzo al campo che davanti alla porta. Non ricordo cosa risposi, probabilmente niente.

Allora non ero pronto a riconoscere ed accettare i miei limiti, a rinunciare all’idea del gol per abbracciare quella del sacrificio.

E ora?

La gente vuole il goal, la gente vuole il goal, vuole il goal, vuole il goal, vuole il goal, goal, goal! (Elio e le Storie Tese)

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