Ho sempre pensato alla Nuova Zelanda come uno di quei posti ai confini del mondo, lontani anni luce da quello a cui siamo abituati. Lande desolate abitate solo da pastori e dai loro greggi, mastodontici maori che corrono reggendo tra le mani una palla ovale, fattorie sconfinate, avvincenti regate, una non sempre facile convivenza tra i “bianchi” e gli “indigeni”. E forse la Nuova Zelanda è anche questo. Di certo è molto di più. Olive viene proprio da quelle parti. Quando sono arrivato a casa di Nancy, lei era qui da quasi un anno. Nel primo mese di “convivenza” parlammo sì e no un paio di volte. A quei tempi trascorrevo la maggior parte del mio tempo a scuola e nella mia camera a trascrivere ossessivamente caratteri cinesi che adesso non ricordo quasi più. Attraverso la porta chiusa la sentivo muoversi da una parte all’altra dell’appartamento, aprire cassetti, affettare carote, riempire e svuotare la lavatrice. Insegnava inglese in una scuola privata, una di quelle in cui figli di papà cinesi si preparavano ad un periodo di studio all’estero. Usciva la mattina abbastanza presto e rincasava solo la sera, con in mano bustoni pieni di cibo. Poi, in preda ad una stanchezza insostenibile, prendeva a “seminare” tutti i suoi oggetti per la casa: bollitori, piatti, vestiti, pentole, tazze. Come facesse a ritrovarli il giorno dopo, per me era un mistero. A volte la trovavo sul divano, la faccia incollata al suo MAC e di fianco a lei una ciotola di qualcosa che di punto in bianco aveva smesso di mangiare per chissà quale ragione. Ricordo quella sua espressione, così concentrata su ciò che stava facendo da dimenticarsi di tutto il resto. Avrei potuto mettermi a ballare seminudo davanti a lei e probabilmente non si sarebbe accorta di niente. Poi di colpo ritornava sulla terra, i suoi occhi si riaccendevano e mettevano a fuoco la realtà intorno a lei. Ma tra il mondo reale e quello suo immaginario sembrava propendere nettamente per il secondo. Questo di certo non facilitava la nostra comunicazione, che si limitava ad un “Hey” quando ci incontravamo la mattina in cucina e ad un altro “Hey” alla sera, prima o dopo cena. Stavo quasi per rassegnarmi ad un tipo di rapporto freddo e distaccato, quando un giorno sentii bussare alla porta della mia camera. Era Olive. “Ti disturbo?” Si era messa quella maglietta a strisce orizzontali bianche e rosse che le dava un’aria da teenager, nonostante avesse suppergiù la mia età. I capelli lunghi e castani erano raccolti in una crocchia da un fermaglio a forma di farfalla. Sarebbe potuta essere una bella ragazza, ma, volutamente o no, si accontentava di essere solamente graziosa. Scossi la testa e dissi di no, che non mi disturbava affatto. “C’è una cosa che ho assolutamente bisogno di dire a qualcuno. Nancy non c’è, quindi, se non ti spiace, la dico a te.” Cominciai a preoccuparmi e la invitai garbatamente a sputare il maledetto rospo. “Beh sai, volevo dirti che… insomma, per farla breve, si sono appena conclusi i mondiali di rugby e indovina chi ha vinto? La Nuova Zelanda! Abbiamo vinto i mondiali di rugby.” Rimasi per un attimo interdetto, chiedendomi se avessi capito bene. “Non è fantastico?” aggiunse lei. Allora faceva sul serio. Le diedi il cinque, cercando di essere più convincente possibile. Le dissi che ero molto felice per lei e per il suo Paese ma che il rugby non era proprio il mio sport. “Nemmeno il mio” rispose, prima di fare dietro-front e tornarsene in camera sua, lasciandomi sulla porta più confuso che persuaso. Per un pò di tempo pensai che si fosse trattato di un episodio isolato, che il nostro rapporto non si sarebbe evoluto più di tanto. Lei continuava ad oscillare tra le sue due dimensioni, quella reale e quella immaginaria. Era come se di tanto in tanto si prendesse una piccola vacanza dalla realtà e in quei momenti Dio solo sapeva in quali strani mondi si andasse a cacciare. Di fatto, con mia grande sorpresa, cominciammo a parlare sempre più spesso. Di cinema, soprattutto, che era l’ambito a cui aveva dedicato i suoi studi universitari in Nuova Zelanda. Avevamo più o meno gli stessi gusti, entrambi andavamo pazzi per “The Truman Show”. Un film che, guardato un pò meno superficialmente, parla essenzialmente del bisogno di ognuno di scoprire cosa si nasconda oltre l’orizzonte, di capire quanto ci sia di vero e quanto di inventato nella propria vita. Lo riguardammo insieme una sera, dopo un bel piatto di spaghetti. Sui titoli di coda lei si alzò di scatto e si diresse in cucina. “Mi è venuta voglia di fare un dolce, è passato troppo tempo dall’ultima volta che ne ho fatto uno” disse rovistando nel frigorifero. Da quel giorno cominciò ad impastare torte e ciambelle sempre più frequentemente e in breve il suo hobby si trasformò in una sorta di dolce ossessione al sapor di cannella. Preparò torte al cioccolato, all’arancia, al limone, mousse, tiramisù, biscotti. Una sera fu in grado di farne addirittura tre una dopo l’altra. “Una è per noi, le altre due le porto in chiesa.” Ci andava ogni domenica, faceva anche parte del coro. Una volta mi chiese se volessi andarci con lei. Le spiegai che il mio rapporto con la religione aveva vissuto fasi alterne, che l’educazione cattolica ricevuta paradossalmente mi aveva impedito di scoprire e vivere una mia personale spiritualità. Le raccontai di come avessi più volte creduto e sperato di trovare nella religione delle risposte, delle soluzioni. Ma non era servito a niente, così avevo cominciato a guardare dentro me stesso piuttosto che al di fuori. Olive mi osservò con attenzione, come se stesse cercando di trovare qualcosa nella profondità dei miei occhi. “E’ perchè ancora non hai fatto esperienza di Gesù, è una cosa che bisogna vivere personalmente. È diverso per ognuno, nessuno te lo può raccontare” disse. Le chiesi se a lei fosse capitato, e, se sì, cosa fosse accaduto di preciso. Mi raccontò che a 15 anni aveva vissuto una profonda crisi di fede. “D’un tratto decisi che non volevo e non potevo più credere a tutto quello a cui i miei genitori mi avevano obbligata a credere fin da piccola. Cominciai a frequentare brutte compagnie, smisi di andare in chiesa la domenica.” I suoi genitori non si rassegnarono all’idea che la più piccola delle loro tre figlie si allontanasse dalla strada che avevano predisposto per lei. “Mi portarono in un’isola delle Hawaii dove si teneva un programma religioso di un paio di mesi, uno di quelli in cui ti fanno pregare tutto il giorno, si organizzano letture di gruppo della Bibbia e cose del genere.” Incontrò altre ragazzine che, esattamente come lei, erano state mandate lì per tornare sulla retta via. Molte di loro si rimisero in riga nel giro di poche settimane, oppure semplicemente fingevano bene. Anche Olive sapeva fingere: partecipava a tutti gli incontri, non saltava le preghiere mattutine, in chiesa sedeva sempre nelle prime file. Poi un giorno conobbe una ragazzina americana poco più grande di lei. “Avresti dovuto vederla: in presenza degli adulti teneva un contegno degno di una principessina, ma quando finivano gli incontri si trasformava. Quasi ogni sera, quando si spegnevano le luci nella camerata, spalancava la finestra e si calava giù, per tornare solo la mattina successiva senza rivelare a nessuno dove avesse passato la notte. Una volta mi chiese di andare con lei ma io rifiutai.” Non passò molto tempo, tuttavia, prima che Olive si facesse coinvolgere in una delle bravate della ragazzina americana. Un pomeriggio, dopo la messa, andarono insieme in un negozio di abbigliamento. “Prima di entrare nel camerino mi chiese di stare lì di guardia e non fare avvicinare nessuno. Uscì poco dopo con gli stessi vestiti che indossava prima di entrare, mostrandomi con orgoglio il suo zainetto pieno di indumenti che stava per portare via senza pagare. Ora tocca a te, mi disse. Non so esattamente cosa scattò nella mia testa. Forse non volevo passare per una cagasotto, forse volevo solo vedere ciò che si provava. Sta di fatto che lo feci: rubai due gonne e una camicetta.” Passarono alcuni giorni e il senso di colpa tormentava la giovane Olive sempre più. La ragazzina americana sfoggiava senza pudore i capi che aveva rubato, mentre lei non aveva nemmeno il coraggio di guardarli. Per un pò cercò di dimenticare la cosa, di lasciarsela scivolare addosso. Ma il peso di quello che aveva fatto era troppo gravoso, così un giorno decise di raccontare tutto ai suoi genitori. Suo padre la ascoltò in silenzio, infine disse: “Questa storia dimostra che, nonostante abbia ceduto alle tentazioni del Demonio, il tuo cuore è ancora puro. Ma hai commesso un errore ed è giusto che paghi per questo.” La obbligò a tornare al negozio, ammettere la sua colpa e prepararsi ad espiarla. “Per me fu una delle cose più difficili che mi fossi mai trovata a dover fare. Al solo pensiero mi sentivo invadere da un senso di vergogna mai provato prima.” Olive tornò al negozio la mattina successiva e restituì i vestiti rubati. Il proprietario le strappò di mano i capi e l’avvertì che avrebbe chiamato la polizia se solo l’avesse vista rimettere piede lì dentro. Intanto il programma volgeva al termine e Olive piombò in una cupa disperazione. Aveva coperto sè stessa e la sua famiglia di imbarazzo e non si sentiva affatto rinnovata nello spirito, tutt’altro. “L’ultima sera eravamo tutti in chiesa a cantare come al solito. Io muovevo le labbra senza emettere alcun suono. Mio padre non mi parlava da diversi giorni, non mi aveva ancora perdonata. Mia madre non mi perdeva mai di vista, mi seguiva persino in bagno per paura che rubassi il sapone. Ad un certo punto successe qualcosa. Avvertii una specie di calore sulla pelle, come se improvvisamente fosse spuntato il sole. Mi guardai le mani. Erano come ricoperte da piccoli puntini luminosi. I puntini si fecero sempre più numerosi e luccicanti e poi cominciarono ad estendersi alle braccia, al busto e alle gambe. In un attimo ne ero completamente ricoperta. Sollevai la testa, mentre calde lacrime mi rigavano il viso, e mi accorsi che la stessa cosa stava succedendo a tutti gli altri. Le persone si osservavano incredule le mani e le braccia cosparse di un luce che di naturale aveva ben poco. Alcuni piangevano forte, altri si gettavano a terra urlando di gioia, altri ancora continuavano a cantare con maggior vigore. Andò avanti così per un paio di minuti, poi la musica cessò di colpo e la luce misteriosa sparì. Allora ci prendemmo tutti per mano e uscimmo dalla chiesa in silenzio. Questa è la storia di come ho conosciuto Gesù. Spero di non averti annoiato o spaventato.”
C’è stato un tempo della mia vita in cui avevo smesso di usare l’immaginazione, in cui avevo lasciato che la mia testa prendesse il sopravvento, escludendo il cuore da tutte le mie decisioni. Non so perchè sia successo, forse credevo non esistesse altro modo per capire quanto ci fosse di vero e quanto di inventato nella mia strana esistenza fatta di orizzonti di cartongesso e comparse senza importanza. Quando Olive mi raccontò questa storia, fortunatamente, quel periodo era già finito o si avviava alla conclusione. La ascoltai attentamente senza perdermi un solo dettaglio e, cosa più importante, senza pensare nemmeno una volta: “Questa è proprio pazza.” E alla fine quei piccoli puntini luminosi quasi li vedevo sulla mia pelle, quel calore di cui parlava quasi me lo sentivo addosso. No, quel giorno non incontrai Gesù, la mia fede da tempo assopita non si risvegliò miracolosamente. In compenso, e non è certo poco, feci veramente esperienza di una ragazza della mia età che veniva da un posto lontano, ai confini del mondo si direbbe, dove il numero delle pecore è dieci volte superiore a quello degli esseri umani e mastodontici maori corrono reggendo tra le mani una palla ovale.
“In case I don’t see ya, good afternoon, good evening and good night”
(dal film “The Truman Show”)
E non sarebbe stato da tutti non scoppiare a ridere o pensare fosse matta. Ci vuole sensibilità. Tu manco a dirlo ce l'hai :), e non poca. è bello essere ascoltati da te. Ci vestiamo da maori mastodontico e corriamo con una palla ovale in mano? ;)I.