Stavo camminando allegramente per le vie del centro, le cuffie alle orecchie e gli occhiali da sole abbassati sugli occhi, godendomi in tutta spensieratezza una domenica mattina come tante altre. Anche gli altri facevano lo stesso: guardavano le loro piccole creature pedalare barchette colorate in laghetti artificiali, compravano mazzi di fiori alla loro dolce metà, giravano per le vetrine dei negozi immaginandosi con indosso capi alla moda. In quel momento tutte le minaccie di questo mondo, le profezie di sventura e le miserie umane sembravano lontane lontane, non c’era niente che avrebbe intaccato minimamente la pace di quella domenica mattina. Almeno era quello che pensavo prima di imbattermi nel gruppo di bambini in uniforme rossa. Se ne stavano lì, nella piazza centrale, con i loro taccuini da reporter e i loro zainetti con l’effigie della simpaticissima gattina giapponese, pronti ad entrare in azione. Quando alcuni di loro intravidero la mia faccia, che tra decine di altre facce più o meno simili tra loro spiccava per i suoi lineamenti esotici e per la presenza di una folta peluria, mi corsero incontro e in un attimo mi ritrovai accerchiato. Di buon grado accettai di farmi intervistare in quanto, pensai erroneamente in quel momento, molto probabilmente si trattava di giovanissimi alunni di una scuola di inglese con l’incarico di intercettare quanti più stranieri possibili e far loro le domande più disparate, in modo da praticare la lingua di Sua Maestà e farsi qualche nuovo amico. Mi era già successo in passato di divenire l’oggetto delle attenzioni di appassionati e diligenti studentelli di inglese, e mi preparai a rispondere alle domande di rito: da dove vieni, cosa ne pensi dei cinesi, hai mai insegnato inglese a studenti cinesi, puoi firmare qui, ci facciamo una foto insieme? Ma i miei giovanissimi amici in uniforme rossa, con mia grande sorpresa e disappunto, cominciarono a pormi quesiti in un cinese pressoché incomprensibile, almeno per il sottoscritto. Non ci capii molto, e dopo qualche minuto, sfinito e leggermente annoiato, iniziai a rispondere con monosillabi a caso. Due “no” e un “sì”, poi ancora un altro “no” e due bei “sì”. Le simpatiche canaglie dovettero accorgersi ben presto che qualcosa non andava, che nelle mie risposte mancava una necessaria logica, una coerenza di fondo. Alcuni di loro si allontanarono, ma molti restarono e terminarono l’intervista con ammirevole professionalità, con tanto di firma finale. Mi lasciarono al centro della piazza, confuso e stordito, a chiedermi cosa fosse successo di preciso negli ultimi cinque minuti della mia vita. Della sfilza di domande a cui mi avevano sottoposto, ero riuscito ad afferrarne per intero solo una: “Da quando sei in Cina come ti informi sulle notizie del giorno? Giornali, telegiornali o altro?” Che c’entravano i telegiornali? E poi avevano detto anche qualcosa a proposito dell’acqua. Sì, questa parola l’avevano ripetuta di continuo per tutta l’intervista. Qualche istante dopo mi si avvicinò un uomo, probabilmente uno degli insegnanti o un responsabile della scuola. Mi chiese da dove venissi e cominciammo a chiacchierare del più e del meno. Ogni tanto gruppetti di tre o quattro piccole pesti si dirigevano minacciosi verso di me, ma l’uomo li bloccava con un sorriso, informandoli che lo straniero era già stato intervistato. “Questo è un problema serio, giovanotto. Sta a noi sensibilizzare la gente, anche perché possiamo tutti fare qualcosa nel nostro piccolo, o no?” Io annuii con decisione, sperando che l’uomo si decidesse a sputare fuori il rospo prima che fossi costretto a fargli una domanda diretta, con tutto l’imbarazzo che ne sarebbe scaturito. Ma lui continuò a ruota libera, parlando di rischi per l’ecosistema, di problemi per le generazioni future, dell’ineluttabilità di certi processi della natura e delle colpe che l’uomo aveva in tutto ciò. Io tendevo l’orecchio per afferrare qualche parola chiave che mi permettesse di cogliere il senso generale. Nulla da fare. “Guarda che sole” disse infine l’uomo sollevando la testa al cielo e schermandosi gli occhi con una mano. “Non c’è una nuvola, e probabilmente resterà così ancora per molto. Non ci resta che sperare a questo punto. Ma io sono fiducioso: pioverà.” Quell’ultima parola fu per me come la tessera mancante di un mosaico, quella di cui avevo bisogno per vederne l’immagine completa. Guardai il cielo anch’io, ma per la prima volta il suo azzurro terso non provocò in me alcuna esaltazione. Di colpo non vidi nella totale assenza di nuvole promesse di primavera e di felicità. Mi trovavo a Kunming da quanto? Quattro mesi suppergiù, quasi cinque. E in tutto questo tempo quante volte avevo visto il cielo piangere? Un paio di volte, quattro al massimo. Troppo, troppo poco. Ritornai sui miei passi e mi avviai verso casa. Dovevo vederci più chiaro. Per le strade intanto erano improvvisamente apparsi poster con immagini eloquenti di terreni aridi dove non crescevano che sparute piantine di un verde sbiadito, laghi divenuti pozzanghere fangose con pescetti che giacevano in superficie privi di vita, uomini e donne che si caricavano addosso secchielli d’acqua e percorrevano lentamente decine di chilometri sotto il sole cocente. Mi venne in mente l’Africa e tutte quelle immagini con cui ci bombardano ogni giorno e a cui quasi non facciamo più caso. Il fatto di sapere che ciò stava accadendo a poche centinaia di chilometri da casa mia, però, rendeva tutto più realisticamente terrificante. Maledissi la mia cecità e ingenuità. Quando i cinesi parlano di Kunming e della provincia dello Yunnan, lo fanno in toni entusiastici, decantandone il clima perennemente primaverile e i paesaggi spettacolari. Per un turista che vi trascorre un periodo limitato sembra il paradiso. Quelli che ci restano per più di qualche settimana devono fare i conti col rovescio della medaglia, un giardino incantato che da un momento all’altro sembra poter essere inghiottito dalle fiamme dell’inferno. Quando arrivai a casa Nancy stava trafficando in cucina, intenta a preparare i suoi intrugli di erbe miracolose. Le raccontai dell’intervista e le esposi i miei timori riguardo la siccità che attanagliava lo Yunnan. Lei non si scompose, continuando imperterrita a miscelare erbe. “E’ da tre anni che va avanti così. Ci sono interi villaggi senza acqua potabile. A proposito di questo, dobbiamo cominciare seriamente a razionare l’acqua.” Puoi scommetterci che razioniamo l’acqua carissima Nancy! Per prima cosa, le dissi, niente più sciacquone, per quello usiamo l’acqua con cui laviamo i piatti. Naturalmente avremo bisogno di qualche secchio. Con quell’acqua ci possiamo anche lavare i pavimenti e la cucina. Cosa ne dici? “Mi sembra un’ottima idea” rispose Nancy senza staccare gli occhi dalla sua tisana fumante. “Dove le hai imparate queste cose?” Io mi strinsi nelle spalle e pensai a mia madre, al suo operoso ed instancabile riciclaggio dell’acqua e a quanto ne andasse fiera. Chiesi a Nancy cos’altro potessimo fare. “Preghiamo il Dio delle Piogge” disse lapidaria, rifugiandosi poi in camera sua. E fu esattamente ciò che feci ogni sera a partire da quella domenica. Mi inginocchiavo di fronte al letto e pregavo il Dio delle Piogge di degnarci del Suo conforto, implorando umilmente il Suo perdono a nome della razza che rappresentavo per tutta la violenza che aveva indegnamente scatenato su Madre Natura. Per un paio di settimane non successe nulla, a parte la comparsa di qualche isolata nuvoletta che puntualmente veniva spazzata via dal vento nel giro di qualche ora. Poi una notte, nella semi-incoscienza del dormiveglia, mi parve di sentire un rumore familiare, come un ticchettio sul vetro della finestra. A tutta prima lo presi per un sogno, ma il ticchettio si fece sempre più continuo ed insistente. Spalancai gli occhi e mi precipitai alla finestra. Stava succedendo davvero. Misi una mano fuori, con il palmo rivolto verso l’alto per sentire le gocce sferzanti accarezzarmi la pelle, poi mi affacciai completamente e, le braccia allargate e il viso verso il cielo, ringraziai il Dio delle Piogge. Piovve per due giorni e due notti di fila, quasi senza smettere un attimo. A tratti la pioggia era così intensa da costringere i pedoni a ripararsi sotto i muri. L’aria, solitamente asciutta e secca, era adesso umida, autunnale. Alcuni si guardavano i vestiti zuppi e imprecavano, mentre io camminavo fischiettando sotto l’acqua battente facendomi scudo solo con un esile ombrellino e rischiando una polmonite. Quando infine smise di piovere chiesi a Nancy se avesse ringraziato il Dio delle Piogge per la grazia che ci aveva concesso. “Il Dio delle Piogge si è dimenticato di noi”, rispose con aria grave, “fortunatamente ci ha pensato il nostro Partito.” Venne fuori che le autorità cinesi, come già avevano fatto in passato a Pechino e in altre aree afflitte da siccità, avevano dato il via libera al lancio di particolari “razzi” contenenti degli agenti chimici che, una volta a contatto con l’atmosfera, erano in grado di creare delle nuvole cariche di pioggia. Piogge artificiali. Niente a che vedere con spiriti e divinità, che probabilmente si sono davvero dimenticati della Cina e di questo mondo impazzito, negandoci giustamente il loro aiuto.
Forse siamo davvero soli in questo universo e nessuno ci verrà in soccorso quando le cose si metteranno davvero male, quando per sopravvivere non basterà più lanciare in cielo dei razzi e aspettare che cada giù qualche goccia.
“Quando non si può tornare indietro, bisogna soltanto preoccuparsi del modo migliore per avanzare.”
(Paulo Coelho)
bello.n
incredibili questi cinesi. ma fanno sul serio? (daniela