Caschi Gialli

Kunming è una città in continuo ed incessante cambiamento. Non si fa fatica ad accorgersene, basta passeggiare tra gli enormi cantieri edilizi che si trovano praticamente ad ogni angolo. Là dove solo fino a qualche anno fa sorgevano tradizionali abitazioni cinesi in mattoni a due o tre piani, adesso ruspe, gru ed escavatrici con i loro ruggiti metallici stanno innalzando grattacieli che un giorno non molto lontano ospiteranno uffici di ditte straniere o cinesi e lussuosi appartamenti per manager. All’esterno, sui muri di cartongesso che delimitano l’area di costruzione sono impressi slogan che incitano alla creazione di una società “civile” (la parola wenming 文明, che compare ossessivamente in tutti gli slogan, può essere tradotta come “civiltà” o “cultura”) e fanno bella mostra immagini di quella che si auspica sarà la Kunming dell’imminente futuro: altissimi e moderni skyscrepers immersi però nel verde, larghe strade per nulla trafficate e percorsi pedonali dove efficienti colletti bianchi passeggiano felici con le loro borsette nere di cuoio. Grattacieli e alberelli, come a dire: “per noi non conta solo fare tanti soldi, come vedete ci teniamo anche all’ambiente e alla qualità della vita dei nostri schiav… ehm, cittadini.” Alcuni cantieri sono talmente grandi da assomigliare a piccoli villaggi da cui non serve allontanarsi se non per respirare una boccata di “aria”, solo che al posto di accoglienti e confortevoli casette sorgono squallidi prefabbricati rialzati. È il regno, temporaneo, dei Caschi gialli, forse tra i veri protagonisti del miracolo economico della Cina, di questo secondo “Grande Balzo in Avanti”. Sono loro che stanno cambiando il volto di questa città e di questo Paese, ma di fatto vivono ai margini della società, in una sorta di universo parallelo fatto di polvere e fango in cui tutto è indistinto e precario. Non c’è niente di definito e risolto nella loro esistenza, che è un continuo abbattere e ricostruire, e poi ancora abbattere e ricostruire. Almeno un paio di volte al giorno lasciano questa sorta di ghetto e in processione si dirigono lentamente verso qualche bettola dove consumano qualcosa di simile ad un pasto, i volti scavati e i corpi logorati. In testa quei caschi gialli che sono l’emblema di una vita votata al sacrificio e minacciata da mille pericoli. La maggior parte di loro ha lasciato le campagne già da tempo, ma nonostante questo detiene ancora lo status giuridico di contadino. In base al sistema della registrazione della residenza cinese, infatti, coloro che si trasferiscono dalle campagne alle città non sono autorizzati a cambiare la loro residenza originaria. Questo significa che non hanno accesso ai basilari servizi sociali della società, come l’assistenza medica, l’educazione per i figli, l’alloggio (e di conseguenza anche l’allaccio di acqua, elettricità e riscaldamento), ma in compenso mantengono, nel luogo di residenza, un proprio appezzamento di terra e la casa. Le decine di milioni di contadini che dagli anni ottanta in poi si sono trasferiti nelle grandi aree urbane tartassati da una crescente povertà, e che sono stati prevalentemente impiegati, o meglio sfruttati, oltre che nel settore edilizio, anche in quello manifatturiero, costituiscono un nuovo ed atipico gruppo sociale che è visto dagli abitanti delle città con preoccupazione e diffidenza. Li chiamano mingong, un termine che in passato veniva usato per indicare i lavoratori assunti temporaneamente per un grande progetto pubblico, come la costruzione di una ferrovia o di una strada. Sono “vagabondi ciechi”, “individui fluttuanti”, “squadroni di ribelli dall’eccessiva procreazione”. Per tutti gli anni novanta i riferimenti ai mingong nei mass media e nei documenti ufficiali sono stati scarsi e per nulla lusinghieri. Nessuno si è sognato di riconoscere loro il fondamentale ed innegabile contributo che hanno dato alla modernizzazione e all’urbanizzazione del Paese. Solo nel nuovo millennio i quadri del partito e i dirigenti cinesi hanno, seppur parzialmente, ammesso i meriti dei mingong e lanciato una serie di iniziative volte a garantire loro un trattamento migliore. Sono partiti dai loro remoti villaggi attratti dalla promessa televisiva di una vita agiata in città, di case grandi e calde, di elettrodomestici, di macchine veloci, delle luci degli alberghi di lusso, di cinema, boutique e ristoranti. Ai più “fortunati” tra loro hanno dato un casco giallo per proteggersi la testa in qualche cantiere o un paio di guanti per lavorare a qualche macchina di qualche industria tessile, e uno stipendio mensile di un paio di migliaia di yuan (circa duecento euro) da spedire in gran parte alle loro famiglie rimaste in campagna. Agli altri è toccata la strada, l’emarginazione, la povertà. Un sogno che si è dissolto tra i ruggiti metallici dei martelli pneumatici e delle gru.

“Com’è bella la città, com’è grande la città, com’è viva la città, com’è allegra la città, piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luci, con tanta gente che lavora, con tanta gente che produce”
(Giorgio Gaber)

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