Spaghetti e Mandolini

Il tempo fa miracoli. Il tempo insieme alla memoria, naturalmente. Questi due elementi cancellano sofferenze che erano sembrate immani, rimarginano ferite che erano parse incurabili. Così quando penso alla mia infanzia laggiù, in quel paesello di seimila anime nella punta dello stivale, non riesco a ricordarmi di un singolo evento spiacevole. Eppure sono pronto a scommettere che ho avuto i miei bei grattacapi, che non mi svegliavo tutti i giorni col sorriso sulle labbra. Che ho pianto anch’io, e tanto. Ma ora è sparito tutto, restano solo immagini soavi e una gran serenità d’animo. E c’è un episodio di quei tempi lì che ultimamente mi è tornato alla mente più di una volta. Riguarda gli ultimi anni di vita della nonna Paola, quando ancora non avevo idea di cosa significasse perdere un parente stretto dato che mio nonno se n’era andato che ero troppo piccolo. Era il periodo delle badanti. Quante ne sono passate: russe, ucraine, rumene, moldave, lituane, slovacche. Era un po’ come il risiko, solo che nella cartina c’era solamente l’Europa dell’est e al posto dei carrarmatini e delle bandierine si utilizzavano palettine e scopettine rigorosamente rosse. Non ricordo nessuna che abbia resistito per più di un paio di mesi. Nonna Paola era un osso duro. Ce n’era una giovanissima che a cadenze regolari bussava alla porta di casa nostra e scoppiava in lacrime. Per una mezzoretta se ne stava lì, a piangere e maledire mia nonna in una di quelle lingue con tante consonanti, dopodiché si asciugava il viso e tornava a farsi maltrattare. Ce n’era un’altra che non ho mai visto piangere. In Russia era una professoressa di liceo con tanto di laurea, in Calabria l’unica cosa che poteva insegnare era come usare il telecomando a qualche vecchietta un po’ stordita. A quei tempi non ne sapevo granché della vita e mi chiedevo cosa spingesse queste donne ad andarsene lontano per finire in qualche casa che sa di malato e stantio. “Quelle c’hanno la guerra, è gente povera” mi veniva detto quando facevo qualche domanda. Però poi finalmente arrivava la domenica e almeno per un giorno le varie Irina, Natalia e Olga erano libere dal giogo delle tremende nonnine. Niente vassoi pieni di cibo da portare da una parte all’altra della casa, niente terrificanti campanelli notturni, niente pannoloni. Le vedevo allontanarsi a gruppetti di cinque o sei e poi tornare che era già buio. E non potevo fare a meno di chiedermi cosa facessero tutto il giorno. Venni a sapere che si riunivano tutte insieme in qualche casa e se ne stavano tra loro, cucinando solo per sé stesse e scolando bottiglie di quelle bevande che nei loro freddi Paesi usavano per scaldarsi.
Sono passati quasi vent’anni, molte cose sono cambiante dentro e fuori di me, ma oggi mi sento un po’ come quelle badanti. Ovviamente a me va molto meglio, non devo pulire cessi e lavare piatti per stare qui e posso andarmene quando voglio. Però anch’io almeno la domenica ho bisogno di parlare con qualcuno che capisca la mia lingua, che abbia una vaga idea di quello che mi sta passando per la testa, che non trovi ogni mio gesto buffo e bizzarro. Un bel piatto di pasta al pesto, pane fresco per fare la scarpetta, dolce, caffè e ammazzacaffè. Tre terroni e due polentoni seduti intorno ad un tavolo piccolo piccolo a condividere qualcosa di più grande di un pranzo domenicale. Se fossimo in Italia probabilmente non avremmo molto a che spartire, ma qui è diverso. Qui si fa gruppo e intorno ad un tavolo si scopre improvvisamente di essere più campanilisti di quanto si pensava. Che un po’ ci manca il nostro Paese bistrattato e malridotto, barcollante e instabile come una ragazzina viziata che non riesce a riprendersi dai postumi di una sbronza. È dura vederlo ridotto in queste condizioni, e talvolta ci si sente anche un po’ vigliacchi ad essersene andati così. Ogni giorno ci troviamo a dover rispondere alle domande lecite di scettici europei che vorrebbero saperne di più su quello che sta succedendo nel bel Paese ma a cui in fondo non interessa affatto cambiare opinione su di noi, perché è comodo e divertente continuare a vederci come macchiette. Spaghetti e mandolini. Forse si sono dimenticati dell’Impero Romano e del Rinascimento, di Dante e Petrarca, di Fellini e de Andrè. E poi ci sono gli entusiasti, perlopiù giapponesi, che conoscono l’inno di Mameli meglio di quello del proprio Paese e per cui l’Italia è una specie di paradiso dove tutti gli uomini sanno giocare a calcio e tutte le donne sanno cucinare piatti prelibati. Tra questi due estremi ci siamo noi, italiani a spasso divisi tra il desiderio irrefrenabile di scappare e la speranza di poter rimanere, feriti nell’orgoglio ma non ancora del tutto rassegnati ad un futuro lontano dal proprio Paese.
Il sole sta per calare, la domenica sta per finire e tra un po’ ci tocca ritornare in Cina, ma va bene così. È la stada che ci siamo scelti, nessuno ci ha obbligati a prendere e partire.
A differenza di quelle badanti, noi avevamo la possibilità di scegliere. O forse no?

“Italia, Italia, di terra bella uguale non ce n’è”
(Mino Reitano)

Una risposta a “Spaghetti e Mandolini

  1. o fridd nguoll…..si bell paisà….uèèè a pizz ca pummarola ngoppa….o sole o mare…..ahahahahah mi è scesa na lasrima campanilistica quanto è vero peppì XD- Vincenzo il Ghost Writer….:D

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