Un giorno di ordinario turismo

Questa domenica in ottobre è troppo bella per starsene chiusi in camera, magari a trascrivere ideogrammi in colonne ordinate fino a perdere la sensibilità alle dita. Bisogna raccattare due o tre cose tra le più indispensabili, ficcarle nello zaino e uscire il più in fretta possibile, perchè a volte, come diceva Gaber, “la strada è l’unica salvezza”. Scendo saltellando sui gradini e aggrappandomi al corrimano come facevo da bambino, e una volta fuori mi ricordo di essere in Cina. È strano, mi  basta trascorrere più di un paio d’ore a casa per dimenticarmene. Ho una cartina della città tutta stropicciata, ma nessuna voglia di aprirla. Quanto alla guida Lonely Planet, pesa troppo, e poi le pagine su Kunming le ho consumate a furia di sfogliarle, potrei quasi citarne a memoria alcuni passi. No, ho deciso che oggi vado a braccio, seguo l’istinto, mi lascio trasportare dalla corrente. Tanto lo sappiamo tutti che le cose più belle accadono per sbaglio. Prendo il primo autobus che mi capita a tiro, giuro che lo faccio. Eccone uno: è verde, è a due piani, è pieno zeppo di cinesi. Praticamente come tutti gli altri, se non fosse che questo mostra davanti il numero 61. E sia. Ora, se pensate che i mezzi pubblici di Roma, di Milano o di Napoli siano affollati, è evidente che non siete mai saliti su un bus cinese. Definire un bus cinese semplicemente “affollato” è ridicolmente riduttivo. La posta alle undici di mattina è affollata, o la chiesa quando ci sono le prime comunioni, o il cinema il giorno di Natale, o la discoteca quando invitano Corona. A dire il vero non mi viene in mente alcun aggettivo per descrivere le condizioni di un mezzo pubblico cinese, anche i vari “stipato”, “gremito”, “traboccante” non rendono bene l’idea. Immaginate cinquanta bambini su una Punto. È vero che la Punto non è poi così piccola e che un bambino non occupa molto spazio, ma sono pur sempre cinquanta bambini in una macchina che può contenerne al massimo cinque. In soldoni, il problema è che questi cinesi sono davvero tanti. In questo momento ne ho due incastrati tra la spalla e il fianco, uno seduto sulla mia schiena e almeno una decina sotto i piedi. Come faccio a capire quando scendere? Anche per quello seguirò il mio istinto. Non avrei comunque altra scelta visto che i cinesi sono anche sui finestrini, attaccati come gechi sui muri. Proprio quando comincio a pensare che tutta questa cosa dell’istinto e del lasciarsi trasportare dalla corrente sia una gran boiata e che ho fatto malissimo a non pianificare un itinerario, dall’altoparlante una invitante voce di donna scandisce in inglese: “Next stop: Confucian Temple”. Scatto come una saetta, mi scrollo di dosso una ventina di cinesi e mi faccio largo verso l’uscita. “Se quella porta si chiude prima che tu sia sceso, le tenebre ti inghiottiranno per sempre” mi dico mentre annaspo a fatica nel pantano umano che si è creato intorno a me, le braccia protese in avanti e la bocca spalancata per non affogare. Sono fuori. Non ho la minima idea di dove sia questo fantomatico tempio confuciano, ma almeno sono fuori. Mi guardo intorno: un KFC, qualche negozio di abbigliamento, un ristorante coreano. Decido di fare il giro dell’isolato. Passo davanti ad altre boutique più o meno raffinate, ad altri ristoranti più o meno invitanti, ad un parco più o meno curato, ma del tempio nessuna traccia. Sto quasi per abbandonare le speranze quando, quasi per caso, scorgo una specie di portone arancione con un cancelletto spalancato. Mi avvicino per guardare meglio. Sì, dev’essere senz’altro lui, a meno che non si tratti di qualche ristorante “tipico” per turisti occidentali. Mentre entro mi chiedo istintivamente come abbia fatto a non accorgermi subito della presenza del tempio: non si può certo dire che un posto come questo non si distingua dagli edifici circostanti, perlopiù centri commerciali e negozi. Non esagero affatto quando dico che qui il tempo si è fermato. Un vialetto si snoda tra una fitta vegetazione e conduce ad una sorta di spiazzo circondato da un laghetto su cui si innalza il tempio vero e proprio, un’architettura tradizionale cinese con i tetti a spiovente e le colonne rosso vermiglio. Tutt’intorno decine di vecchietti giocano a majong e sorseggiano tè, chiacchierano amabilmente o suonano strumenti antichi. Alcuni di loro portano ancora il berretto blu in voga ai tempi di Mao. Quasi non si accorgono della mia presenza, tanto sono presi dai loro passatempi. E a me va benissimo così: mi siedo e finalmente mi godo un pezzo di autentica Cina, il primo da quando sono qui. Tuttavia mi tocca anche constatare la condizione di quasi totale abbandono in cui versa il complesso: il colore rosso delle colonne è ormai sbiadito, l’acqua del laghetto è verdastra e ci sono cianfrusaglie ammassate ovunque come in un cantiere edile. Mentre percorro a ritroso il vialetto verso l’uscita, ho l’impressione che posti come questo esistano ancora solo per essere usati come magazzini di oggetti ed esseri umani che con la Cina di oggi hanno ormai poco a che fare. Forse è per questo che è difficile accorgersi della sua presenza: il tempio è come fagocitato dagli imponenti edifici moderni che sono stati eretti tutt’attorno. Ci devo pensare un po’ su, magari davanti ad un bell’hamburger. Si ragiona sempre meglio a stomaco pieno. Dal tempio confuciano al KFC il passo è breve, basta attraversare la strada. Quando esco dal locale è ormai pomeriggio inoltrato, il cielo si è improvvisamente oscurato e questa domenica in ottobre non è più così bella come mi era parsa solo diverse ore prima. Magari me ne torno a casa, si ragiona sempre meglio nella propria camera. Una piccola folla di ragazzini intanto si è radunata davanti ad un palchetto dall’alto del quale un uomo in elegante completo scuro con un microfono in mano sta dicendo un mucchio di parole di cui io naturalmente non capisco il significato. Ha la parlantina svelta e si muove febbrilmente da una parte all’altra del palco. I suoi “spettatori” lo seguono con attenzione, pendono dalle sue labbra, sobbalzano ad ogni suo cenno. L’uomo ha un oggetto tra le mani, una scatolina viola che mostra continuamente alla folla come una sorta di sacra effige. Ne sono tutti rapiti, e quando l’uomo fa per lanciarla si accalcano e tendono le braccia. La scatolina viola contiene un cellulare, e altre scatoline viola sono accatastate sul palco. La voce dell’uomo man mano cresce di intensità, i suoi movimenti si fanno più spasmodici. Ormai i ragazzini tengono stabilmente le braccia protese in avanti, tra loro c’è anche qualche adulto. Quelli dietro spingono, quelli davanti manca poco che saltano sul palco. L’estenuante “spettacolo” dura una buona mezz’oretta, in cui l’uomo non smette di parlare nemmeno per un attimo. Ogni tanto fa delle domande alla folla del tipo: “Vero o no?” e tutti rispondono: “Vero!”. Infine prende dei bigliettini e li agita vistosamente. Quando ormai mi sembra chiaro che nessun cellulare verrà regalato a nessuno, accade una cosa inaspettata: l’uomo comincia a distribuire i bigliettini tra i suoi adepti, i quali si precipitano poi verso un gazebo lì vicino e qui ricevono la tanto agognata scatolina viola. Chissà se tra di loro qualcuno sa che dall’altra parte della strada, proprio di fronte al KFC, c’è un suggestivo tempio confuciano dove il tempo si è fermato.

“Perchè il giudizio universale non passa per le case, le case dove noi ci nascondiamo. Bisogna tornare nella strada, nella strada per conoscere chi siamo”.
(Giorgio Gaber)

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