Viralità

È iniziato tutto con innocui post sui siti di alcune testate nazionali. Si trattava perlopiu’ di brevi video nella sezione “cose buffe dal mondo”, che nella maggior parte dei casi sta in alto a destra e attira l’attenzione del lettore piu’ delle notizie di politica e di cronaca.

Perché la gente ha quel primordiale bisogno di perdersi nelle minchiate piuttosto che attivare il cervello per digerire ed elaborare questioni complesse.

Ad ogni modo, fin lì nulla di preoccupante: i filmati si diluivano in lunghe liste che gli utenti scorrevano senza neanche fare caso ai nomi e ai luoghi di provenienza.

Poi è arrivato il maledetto video della dannata monorotaia che trafigge da parte a parte un palazzo, e lì le cose sono cambiate. Oddio, potevo ancora contare sul fatto che pochi, pochissimi, sapessero pronunciare il nome della città o avessero la minima idea di dove questa si trovasse.

All’epoca si era ancora nella fase “Cina? Mah sì: Pechino, Shanghai… forse Hong Kong”. Un altro duro colpo è stato in seguito inflitto dal Covid. Improvvisamente tutti sapevano di “Uaan”, suono che fino a poco prima avrebbe potuto al massimo richiamare il nome di un amato pupazzo che aveva dominato la televisione italiana, e segnato le nostre vite, per due decenni.

Insomma, la perdita dell’anonimato era imminente. Alla domanda “Ma dove in Cina?” non avrei più potuto assumere quell’aria di sintomatico mistero, per dirla con il Maestro, e sciorinare al mio interlocutore sbigottito ed estasiato i molteplici primati, non sempre positivi peraltro (ma questo non faceva che aggiungere sapore alle mie storie) di questa megalopoli inspiegabilmente semisconosciuta. Chongqing. E ci tenevo a correggere la pronuncia, senza neanche provare a nascondere quel senso di fastidio che contraddistingue chi, dall’alto delle sue conoscenze, è quasi costretto ad erudire i suoi umili discepoli.

Le cose sono precipitate in fretta con Instagram, TikTok e altre diavolerie di questo genere. E poi sono arrivati loro: i travel blogger. Hanno spianato i loro obiettivi, fatto roteare le minuscole telecamere, sguinzagliato in aria i droni da combattimento. E hanno marciato come Annibale sulle rovine di quei segreti di cui io e pochi altri eravamo da tempo custodi.

È fin troppo facile così. Prendi un aereo, magari in business, ti fai coccolare da un hotel di lusso sul fiume, fai qualche suggestiva ripresa dello skyline e delle barche luccicanti. Un bel mercato magari, dove l’evidente mancanza di igiene è controbilanciata dall’affabilità e calorosità dei locali. E chiudi i conti con un paio di templi buddisti e/o taoisti. Quelli che forniscono una perfetta dose di misticismo e instagrammabilità, giusto per saziare i crescenti appetiti di esotismo che ormai fioriscono ad ogni latitudine.

No amici, non funziona così. Il diritto di amare questo posto fuori da ogni logica bisogna conquistarselo. Così come bisogna conquistarsi il diritto di odiarlo. E io, modestamente, dopo oltre dieci anni di onorato servizio, posso dire di avere entrambe le mostrine sul petto. Lampeggiano ad intermittenza come lampadine, una verde e una rossa. Spesso si sovrappongono. E a volte alla fine della giornata non sono del tutto certo di conoscere i motivi che mi trattengono ancora qui, però il solo pensiero di andarmene mi getta nello scompiglio.

La verità è che vorrei anche io ricominciare a vagare come un turista qualsiasi e annotare su questo diario le tante bizzarrie che mi circondano, come se le vedessi per la prima volta. Sì, mettermi in fila con tutti gli altri, il telefono ben puntato per catturare il momento, e assistere al prodigio del trenino che scompare in un palazzo di 50 piani e sbuca dalla parte opposta.  

Il web fa più danni di un’autobomba.

Recep Tayyip Erdoğan

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