Ci risiamo, è arrivato quel momento dell’anno. Ogni volta è la stessa storia. Si avvicina senza farsi notare troppo, con passo felpato, approfittando del generale stordimento post-natalizio, e quando te ne accorgi è troppo tardi: le lanterne rosse, ingombranti e pacchiane, hanno già ricoperto edifici e alberi come fa l’acne col volto di un quindicenne.
E, insieme a loro, le inconfondibili musichette scampanellanti e ripetitive che riecheggiano ad ogni angolo fino a penetrare la tua corteccia cerebrale come tanti piccoli aghi.
A quel punto sai che l’unica soluzione sarebbe quella di trovare riparo il più lontano possibile, ma una letale marea umana ti travolge, ricacciandoti indietro nel tuo angolo di tranquillità e silenzio che, per i prossimi otto giorni, cercherai di difendere come un fortino.
Uno dei più grandi movimenti di massa al mondo, così viene definito il Capodanno Cinese. Questi spostamenti sono descritti come delle epopee interminabili che al confronto il ritorno di Ulisse a Itaca è una piacevole passeggiata in mezzo a prati fioriti.
Si narra di macchine ferme in autostrada per giorni interi, di biglietti acquistati con mesi di anticipo o pagati come una settimana alle Maldive, di strazianti attese anche per andare al cesso.
E tutto questo per ritrovarsi dalla nonna in centoquindici a ingurgitare ravioli come se non ci fosse un domani. Con lo zio che ti chiede se ti sei laureato, se hai trovato lavoro e quando pensi di sfornare un marmocchio.
I più disgraziati infatti sono proprio i giovani: per loro tornare a casa è come passare alla cassa a saldare il conto dopo aver mangiato a credito per un anno. Alcuni ingaggiano anche finti partner per dare l’impressione che nella loro vita fili tutto liscio. E forse va davvero tutto bene, ma non nel senso inteso dal resto della famiglia.
Poi, dopo avere fatto scorta di calorie come prima di una spedizione in Antartide, ci si tuffa di petto nel più becero turismo urbano.
Chongqing è, ahinoi, in cima alla lista delle mete più ambite. Lo è diventata al tempo dei social, quando sulle piattaforme sono cominciati a circolare video di gente in mezzo a grattacieli sfavillanti e “antichi villaggetti moderni” con le lucine tipo mercatini del Trentino. La spinta all’omologazione, vero motore di questo Paese, ha fatto il resto.
E quindi eccoli qui: frotte di disperati all’affannosa ricerca di scorci da fotografare tra una colata di cemento e un ingorgo stradale. Ieri ho visto una tipa farsi immortalare in un parcheggio.
Come dite? Sembra di raccontare il Natale dalle nostre parti, solo in scala nettamente superiore? Ma almeno dai noi i fuochi d’artificio li fanno ancora, mentre qui hanno abolito anche quelli.
Però pensandoci bene potreste avere ragione. In effetti ho smesso di trascorrere il Natale in Italia già da un po’ e la sola idea mi deprime. Forse non è neanche il Natale in sé quanto sentirsi obbligati a prendere parte ad un rituale collettivo imposto dall’alto. Dai poteri forti, direbbe qualcuno.
Dovremmo invece riappropriarci della sacrosanta libertà di decidere noi quando e come vedere le, pochissime, persone che davvero valgono il nostro tempo, unico bene indispensabile ma che si esaurisce a ritmi sempre più incalzanti.
Quasi quasi fermo il primo branco di zombie che si aggirano irrequieti da ore nell’attesa che si concluda anche questa ennesima giornata “di festa” e glielo dico. Non siete tenuti a farlo se non vi va. Tornatevene a casa, spegnete il telefono, fatevi una dormita. Anche una settimana di ozio è molto più produttiva e gratificante di tutto questo.
Probabilmente mi prenderebbero per pazzo. I più lesti sguainerebbero uno smartphone a dieci videocamere per fissare il viso spiritato di uno straniero tra i moments di punta della loro indimenticabile vacanza. Magari un buon auspicio per l’Anno del Drago.
Meglio camminare 10.000 chilometri che leggere 10.000 libri (antico detto cinese)